Cinema

In lode di Gary Oldman

L’attore britannico dice di voler chiudere la sua carriera, ma il ruolo di Jackson Lamb in Slow Horses sembra prolungarla a tempo indeterminato: Paolo Sorrentino, Christopher Nolan e qualche milione di spettatori ringraziano sentitamente

  • 12 settembre, 14:15
  • 12 settembre, 14:15
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Di: Michele Serra

Che gli attori contengano moltitudini è una banalità: lo fanno di mestiere.
Spesso però, quando li incontri davvero, per interviste o presentazioni pubbliche, scopri che sono conversatori assai meno interessanti di quello che pensavi (anche considerando il fatto che nessuno sano di mente ama parlare con i giornalisti, e che nel 90% dei casi questi ultimi farebbero domande noiose anche al più geniale mattatore). Ma forse anche questo è normale: in fondo, si tratta di persone abituate a recitare battute scritte da altri.
Esistono però eccezioni a questa regola, per quanto rare: Gary Oldman è una di queste. Chiunque avesse voglia di perdere (forse non è la parola giusta) tempo a spulciare un po’ delle sue interviste più o meno recenti, ci troverà dentro storie assurde, osservazioni geniali e battute fulminanti, nonostante l’apparente indecisione nel rispondere, il frequente balbettio, il suo sembrare spesso un po’ fuori posto. L’uomo, del resto, è sempre stato sfuggente per pubblico e stampa, e amato da chi lo conosceva, a partire dall’amico David Bowie, che ha ricordato dal palco dei Brit Awards per conto della famiglia, dopo la morte nel 2016.
Intendiamoci: quella rappresentata dal carisma personale è solo la ciliegina sulla torta del talento, per Oldman, sollevatosi con le sue forze dal sottosuolo della lower class londinese alle vette hollywoodiane. E oggi che il talento vero diventa sempre più difficile da trovare nello star system, il suo sembra splendere ancora di più: ci guardiamo indietro, buttiamo un occhio agli ultimi quarant’anni, e ci accorgiamo di aver osservato sullo schermo uno dei grandi del cinema. Sarà anche che ormai ha affermato (sin dal 2022) che la sua carriera di attore è finita, e che preferisce fare il pensionato: una decisione che ritarda a trasformare in fatti solo a causa del successo insperato di Slow Horses, la serie di Apple TV+ che doveva essere il suo ultimo lavoro, e che invece sta producendo la sua quinta stagione. Così, nel frattempo si è fatto convincere anche da Paolo Sorrentino a interpretare uno scrittore alcolizzato nel suo ultimo Parthenope, oltre che Christopher Nolan a interpretare il presidente Harry Truman in Oppenheimer. Ma tra i tre ruoli, non c’è dubbio che sia quello dell’agente segreto Jackson Lamb, di Slow Horses, ad aver più entusiasmato Oldman.

Per chi non l’avesse mai vista – è di gran lunga una delle cose migliori che si possano pescare nel mare di contenuti che ci vengono offerti quotidianamente dai colossi dello streaming – Slow Horses è una serie che ribalta la nostra idea delle spie inglesi come killer in smoking nero, sempre perfette, vestite di sprezzo del pericolo ed eleganza inappuntabile: in questa storia, la spia più brava è un vecchio sbevazzone che ha un rapporto molto intenso con i suoi gas intestinali. Poco elegante, lasciarsi andare a sonore flatulenze durante le indagini? Forse. Ma di eleganza ce n’è poca, in Slow Horses: siamo tra gli agenti segreti di sua maestà, certo, ma non quelli che frequentano i palazzi del centro dove lavorano i colleghi importanti. Questi stanno in un caseggiato cadente chiamato “Il pantano”, e insieme compongono un team di reietti allontanati dalle posizioni di responsabilità perché troppo scarsi. Oldman interpreta il loro capo, l’agente Jackson Lamb, cioè il succitato vecchio ubriacone: un uomo sfatto, un relitto perennemente con il bicchiere in una mano e la sigaretta nell’altra; dorme in ufficio, ma non perché lavora troppo, piuttosto perché non sembra avere altro nella vita. Loser totale e genio dello spionaggio, così come scritto dal bestsellerista britannico Mick Herron, compreso di battute cattivissime e di un cinismo esasperante. E Oldman che si diverte come un matto a trasformarsi in questo personaggio sempre più sgradevole, brutto fuori e dentro, di cui ti sembra di sentire la puzza, quando appare sullo schermo. Slow Horses è una serie in cui il più pulito ha la rogna, in cui grandi agenti segreti fanno errori madornali e si fanno infinocchiare come dilettanti, in cui tutti sono pieni di vizi: droga, alcol, gioco d’azzardo e molto altro. Come fai non voler bene a una serie così?
E infatti Gary Oldman si è innamorato del suo protagonista, un personaggio scomodo e memorabile che sembra ormai considerare una specie di personificazione della sua parabola esistenziale e della sua carriera attoriale. Nonché l’ultima trasformazione, delle decine che compongono quest’ultima.

È una personificazione della sua parabola esistenziale perché, come lui, Lamb è un sopravvissuto a eccessi depressivi: negli anni Novanta, dopo i successi di Dracula di Bram Stoker e Léon, nonché durante le relazioni con Uma Thurman e Isabella Rossellini, Oldman era affondato nell’alcolismo, che ha prima romanticizzato («Tutti i miei eroi erano bevitori o consumatori abituali di oppio – ha dichiarato in anni recenti – Ammiravo poeti, attori e scrittori con problemi di alcool»), poi esorcizzato con l’autoironia, infine sconfitto grazie agli alcolisti anonimi e a una lunga riabilitazione.
L’alcolismo era stato anche causa della fine della relazione tra sua madre e suo padre, Leonard Bertram Oldman, che aveva lasciato la famiglia quando Gary aveva solo sette anni. Echi di quella infanzia difficile si trovano in quella che rimane a oggi l’unica prova di Gary Oldman da regista, Niente per bocca, del 1997: un film crudo e autobiografico in cui una famiglia della periferia londinese sopravvive a stento tra violenza e dipendenze, che oggi possiamo inserire in una tradizione realista che passa per il cinema di John Cassavetes e Ken Loach. Un film, per quanto poco ricordato oggi, splendido e rivelatorio, mai retorico, beatificato dalle interpretazioni (Kathy Burke vinse il premio per la miglior attrice a Cannes) e dalla musica dell’amico Eric Clapton (con un piccolo aiuto di Sheryl Crow, non accreditata, alla fisarmonica, come rivelato tempo dopo).

È anche, Jackson Lamb – scrivevo poco più sopra – l’ultima trasformazione di un attore che è sempre partito dal corpo, e dal trucco e parrucco, per calarsi nelle parti. Oldman ha affermato che il trucco gli serve da corazza, per dargli il coraggio necessario a interpretare un personaggio, per superare ogni timore di inadeguatezza. Tanto che il ruolo che gli ha messo più ansia nell’intera carriera, a suo dire, è quello del produttore Herman J. Mankiewicz in Mank, che richiedeva solo un minimo make-up (e che ha finito per fruttargli la sua terza nomination agli Oscar).
Ma la maggior parte delle volte, Oldman ha potuto sfruttare a fondo l’abilità dei truccatori: ha avuto i capelli punk di Sid Vicious nel folgorante Sid e Nancy di Alex Cox, gli occhi iniettati di sangue del conte Vlad nel Dracula di Francis Ford Coppola, i baffi e la chioma fluente di Sirius Black nella saga di Harry Potter, naturalmente il doppio mento di Winston Churchill nell’Ora più buia di Joe Wright, fino a indossare il volto completamente distrutto di Mason Verger in Hannibal di Ridley Scott. Chissà cosa avrà pensato, nel leggere delle polemiche sul naso finto indossato da Bradley Cooper per interpretare Leonard Bernstein in Maestro.
Ecco che Jackson Lamb di Slow Horses appare dunque l’ultimo divertimento di un attore che ha sempre amato giocare con le metamorfosi del corpo e le possibilità infinite offerte dal cinema, che ne ha incarnato lo spirito, ispirando molti altri: non stupisce che gente come Joacquin Phoenix e Christian Bale lo citi continuamente, quando gli viene chiesto quali sono gli attori che ammira di più.
Possibile che Gary Oldman voglia davvero smettere? Possibile che si sia stufato del suo gioco preferito? Speriamo di no. Come canta Mick Jagger nella Strange Game che fa da sigla a Slow Horses «C’è sempre una speranza / su questa strada scivolosa / da qualche parte, il fantasma della possibilità / di tornare in gioco».

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